L’Antica Cartiera e gli arabeschi culinari di chef Giuseppe Forte…
di Giuseppe Pasquale Fazio
Nel cuore della costa d’Amalfi, in località Marmorata del Comune di Ravello, arroccato sugli scogli a strapiombo sul mare, il ristorante “L’Antica Cartiera” vanta una posizione straordinaria per chiunque voglia godere di un tempo proiettato verso l’infinito: è il mare, in tutta la sua maestosità, il protagonista assoluto… in grado di rapire lo sguardo e l’anima. «(…) Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare».
È il mare, ancora il mare ad ispirare i piatti di Giuseppe Forte, Executive Chef, e la sua brigata (Gabriele De Vita, Gennaro Santoriello, Fulvio Senatore e Vittorio Stasi). Frutto di passione e professionalità, ogni sua creazione segue gli scrupolosi dettami della tradizione e della semplicità, così da incontrare, nel gusto e nella mise en place, il favore dei più.
«Sempre il mare, uomo libero, amerai! Perché il mare è il tuo specchio; tu contempli nell’infinito svolgersi dell’onda l’anima tua, e un abisso è il tuo spirito non meno amaro». L’accoglienza, tra le tante piccole coccole riservate agli avventori, è il valore aggiunto di un luogo che nella sua semplicità è già incanto, il servizio è allegro, brioso e piacevolmente confidenziale. Le serveur, Paolo, riesce a suggerire i migliori abbinamenti con la complicità di un vecchio amico, senza mai essere inopportuno.
«Sull’antico legno, corroso dalla salsedine, siedo e attendo che il mare mi rechi il suo sapore». Insomma, L’Antica Cartiera ci è piaciuta… e anche tanto! Una giornata “spesa bene” in tutti i sensi. Da ripetere? Certo che sì!
Nell’ambito dei nostri viaggi, non poteva certo mancare la tappa veronese del Vinitaly.
Un evento che annualmente “scalda gli animi” degli addetti ai lavori, ma anche quelli dei tanti appassionati.
Abbiamo deciso, in quest’articolo, di affrontare il tema Vinitaly con uno sguardo più “esterno”, senza entrare in tecnicismi e dimenticandoci di avere un po’ di naso e bocca da sommelier. Ne parleremo semplicemente da appassionati di enogastronomia e di grandi eventi.
Il Vinitaly, oltre a rappresentare un’occasione per “esporre” le aziende e i vini che ciascuna cantina produce, è innanzitutto uno degli eventi nazionali e internazionali più istituzionali, soprattutto per il neonato (nella denominazione) Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste. Non è mancata, infatti, la sfilata istituzionale (hanno partecipato quasi tutti i componenti dell’esecutivo nazionale) che, crediamo e speriamo, non resti solo tale. Uno dei padiglioni allestiti all’interno della Fiera di Verona per l’occasione era proprio dedicato alla componente istituzionale con incontri, mostre e, naturalmente, le voci dei rappresentanti del Governo.
Ma parlando di “istituzionale” vogliamo riferirci anche alla valenza – non solo formale – che questo evento acquisisce per gli addetti ai lavori, per i tanti turisti, appassionati – c.d. “Wine lover” – e, certamente, per gli stakeholder tutti del mondo vitivinicolo mondiale, diretto e indiretto.
D’altronde il vino italiano è una delle più importanti forme della rappresentatività italiana nel mondo. Lo conferma il fatto, ad esempio, che erano tanti gli stranieri seduti ai “tavoli delle trattative” di vendita, allestiti nelle aree più riservate di ciascuna cantina (forse troppi pochi in Campania, almeno nei due giorni di nostra presenza).
Il Vinitaly, però, innanzitutto è evento. Ad esempio, ci piace segnalare come, per l’occasione, tutta Verona si vesta di “Vinitaly”. Facciamo riferimento, in particolare, a “Vinitaly and the city”, realizzata da Verona Fiere con le istituzioni territoriali comunali e provinciali.
Passeggiando per le strade della città, ogni vetrina è allestita con bottiglie di vino (anche pregiato). Inoltre, le attività commerciali aderiscono alle degustazioni in negozio. Un ottimo modo per pubblicizzare la propria attività ed uniformare la città tutta rispetto al periodo più rappresentativo per quel territorio (e certamente l’intero territorio nazionale).
Tanti gli eventi, quindi, collegati e mai stonati rispetto al Vinitaly/salone del vino. Tanti gli allestimenti (anche pubblicitari) che affascinano anche per scelta estetica. Gli spazi più istituzionali (facciamo riferimento, ad esempio, a quello dedicato alla “Lamborghini” in dotazione alla Polizia di Stato, in esposizione in Piazza Dei Signori e poi in Fiera) sono la giusta cornice per un evento di così alta portata. Ma il formalismo istituzionale non fa certo dimenticare, ad esempio, la fascia più giovanile: aperitivi e musica. Insomma, il Vinitaly è davvero un grande indotto turistico-sociale di grande impatto.
Ma torniamo in fiera. Sono i 17 i padiglioni, tra i fissi e quelli allestiti per l’occasione, che hanno ospitato circa 4.000 aziende.
La Campania (come l’Emilia-Romagna, ad esempio), un unico grande padiglione, che ha voluto uniformare lo stile di tutte le cantine, in un’ottica di insieme, suggestiva, e di forza nei confronti dell’extraregionale. Altre regioni, ad esempio, hanno optato per “ogni cantina allestisce il proprio spazio come meglio crede”. Sotto questo profilo, però, vi è soprattutto un riferimento positivo. Accanto alla indiscussa qualità dei vini, le cantine hanno sfoggiato anche degli allestimenti di indubbio fascino. D’altronde, nella società odierna, ove l’immagine è probabilmente l’aspetto prevalente, non poteva essere diversamente. Forme e cromie scelte per la presentazione degli spazi espositivi hanno reso anche le degustazioni un’esperienza unica e completa.
Come pure, a completamento del riuscitissimo evento Vinitaly, non potevano mancare le tante masterclass che si sono tenute. Noi abbiamo partecipato, ad esempio, a quella tenuta da Luca Matarazzo, sommelier AIS e giornalista di indiscussa fama. Matarazzo ci ha portato nel mondo dell’Albana secco e passito. Esperienza molto gradevole per la passione dello stesso degustatore, per quella degli esponenti istituzionali ma soprattutto per le emozioni ed esperienze trasmesse dai titolari delle cantine esponenti del territorio.
Un altro padiglione da noi apprezzato è stato quello “Agrifood”. Prodotti tipici territoriali (vini, salumi) alle eccellenze artigianali dei birrifici italiani. Anche nel caso delle birre la territorialità la fa da padrona. Non abbiamo non potuto fermarci con Teo Musso, fondatore dello storico birrificio “Baladin”: il suo estro, anche estetico, è interamente percepito nelle sue birre. Oltre alle gustosissime birre storiche, vogliamo segnalare quella “gluten free”: l’abbiamo molto apprezzata.
Vi è, però, anche una nota dolente su cui vogliamo porre attenzione. In un evento in cui la “territorialità” e, sotto certi aspetti, l’immagine sono temi portanti, ci ha un po’ meravigliato trovare cantine appartenenti ad una regione, allestire il proprio spazio in quello di altre regioni. Le motivazioni recondite o le presunte tali ci sono state un po’ rivelate da chi è addentro, ma riteniamo che probabilmente non è proprio la scelta più felice: sia per la cantina stessa che per il territorio di appartenenza.
Insomma, un appuntamento che nel complesso ci ha soddisfatti a pieno. Verona e tutto il territorio ne giovano in maniera particolare. I prezzi – come giusto che sia – aumentano. Forse un po’ troppo. Riteniamo che il Vinitaly possa rappresentare davvero un’opportunità per l’Italia di “esporsi” soprattutto verso i mercati esteri. Ma, con il giusto filtro, crediamo che possa essere anche un evento “popolare” soprattutto se con concerti, mostre, appuntamenti culturali possa essere arricchito il programma del “Vinitaly and the city” o comunque l’offerta turistica del territorio veronese.
“Officina 39” nasce dall’idea di identificare il locale con il numero civico corrispondente. Peccato che quel numero non corrisponda in realtà al civico corretto dell’indirizzo. Da questo errore meramente formale, però, può nascere una fresca idea di gusto. I ragazzi di Officina 39 incarnano proprio questa idea.
Non nuovi della ristorazione ( due dei quattro soci sono i titolari del ristorante-pizzeria-braceria “Km 237”, poco più avanti), hanno deciso di impiantare in una location storica per la Valle Caudina, dove si sono succedute alcune attività di successo, una nuova pizzeria-paninoteca. Ma non bisogna pensareall’idea quasi scontata dell’ennesima pizzeria.
La Bufalina del Vesuvio
Alfonso Capobianco (anche lui di provenienza “Km 237”), pizzaiolo e oggi anche co-patron di “Officina 39”, ha voluto portare, assieme ai soci, la compagna Assunta, Elysabetta e Luigi, la genuinità della lavorazione della pizza e degli ingredienti.
Alfonso torna in Valle Caudina dopo un periodo sabatico in cui ha voluto un po’ ritrovare sé stesso e studiare bene i progetti futuri. Il menu riporta una vasta scelta di panini (che, almeno alla vista, sembrano davvero gustosi non avendo ancora avuto modo di assaggiarli) e alcune sfizioserie. Noi, ad esempio, oltre alle pizze, abbiamo deciso di “buttarci a capofitto” nel maxi crocché di patate e pulled pork.
crocchè di patate e Pulled Pork
La evidente preparazione artigianale non ha deluso le nostre aspettative. A completare la variegata scelta vi sono stati, a nostro parere, due elementi essenziali che hanno fatto la differenza. Il primo riguarda la scelta dei dolci: oltre alla selezione un po’ più classica, hanno voluto farci assaporare delle loro creazioni con la pasta della pizza e crema pasticciera e amarene e, ancora, al gusto cannolo e pistacchio (davvero consigliate).
Gairloch – Strong Scotch ale
L’altro elemento, invece, è la birra. Alfonso essendo un vero appassionato ha deciso di proporre una selezione di birre artigianali campane, oltre ai grandi classici. La compagna Assunta, Wine Taster, ha saputo ben consigliare sugli abbinamenti tra le numerose birre e le pizze (dalle classiche a quelle più gourmet) scelte. A proposito di birre ci piace segnalare agli increduli e anche a noi stessi come, anche in Campania, sappiamo fare le cose bene: dovremmo solo investire meglio nell’immagine e nella vendita della stessa.
Pizza al Caffe
A fare da contorno alla serata un piacevole one man live. Musica italiana moderna e fresca in pieno stile “Officina 39” che, anche esteticamente, ne racchiude i caratteri di una giovinezza impegnata, attenta, ma senza troppi fronzoli.
Come scriviamo spesso, crediamo molto nei giovani e nelle loro idee. Crediamo molto nelle forze che gli stessi impiegano per concretizzarle. Per questo, cari auguri di buon lavoro e … a presto vederci.
Poco lontano da Benevento, nella cittadina di San Giorgio del Sannio, una coppia di giovani ha deciso, con non poco coraggio, di dedicare la propria vita ad un nuovo progetto. Alessandro Bernardo e Francesca Blaso vi aspettano nella loro nuova trattoria “32 posti”. Sono infatti (sedia più, sedia meno) trentadue i coperti che questa location moderna può contenere. Almeno nel periodo autunnale-invernale. Per quella che al sud definiamo “’a stagione”, invece, stanno per prepararci una bella sorpresa all’esterno che di certo farà aumentare la capienza. Ma non solo: si tratta di una vera e propria evoluzione: la seconda a dire il vero. Partendo da quest’ultima, i due giovani ci parlano di una novità che abbinerà alla ristorazione anche una parte più fresca come aperitivi ecc.
Parliamo di seconda evoluzione poiché pare che, almeno da quanto ci raccontano, già ce ne è stata una. Hanno aperto da poco. Hanno deciso di affidare la piccola ma attrezzata sala ad una brigata non nuova del campo, capitanata da Michele De Crosta. L’umiltà di Chef Alessandro e Francesca ha permesso loro di raggiungere già un ottimo livello, ponendosi all’ascolto di chi gli ha consigliato loro una prima evoluzione anche rispetto alle idee di piatti.
Francesca è un avvocato prestata alla ristorazione. La sua forma mentis le consente di districarsi bene nella parte più burocratica dell’attività, senza disdegnare qualsiasi ruolo a copertura.
Alessandro, invece, è un altro “figlioccio” di Mirko Balzano. Una delle sue prime esperienze nel settore della cucina è stata proprio da Triglia, rimpianta trattoria di mare ad Avellino, ennesima creatura di chef Balzano. Poi le sue esperienze all’estero.
Due ragazzi giovanissimi, ma già molto indirizzati. La loro figlioletta sicuramente li ha messi in riga. La volontà, però, di fare e di dedicarsi al lavoro, li rende (almeno da quanto traspare dai loro occhi) felici di fare quello che hanno scelto. Capiamo la difficoltà del momento anche se loro abbozzano un po’ sull’argomento (grande sintomo di maturità e umiltà). Molti -ci raccontano- hanno usato espressioni del tipo “ma chi ve lo fa fare ad aprire un’attività in questo periodo”. Loro invece hanno deciso di scommettere, innanzitutto, su se stessi.
Alessandro fa una scommessa di tradizione. Una tradizione più netta e “pulita”. Una tradizione che, senza disdegnare l’aspetto più innovativo della cucina gourmet contemporanea, resta però salda. Cura e pulizia dei piatti, abbinamenti, sono gli ingredienti che non tradiscono in alcun modo la tradizione. Anzi la evolvono con evidente garbo. Una scelta non subita, anche se consigliata da molti. Ma Alessandro resta nel suo.
Lo staff di sala è degno di un grande ristorante moderno. Pronti e preparati. Michele De Crosta è scelta di garanzia. Le sue innumerevoli esperienze sono evidenti nella direzione di sala. La giovane Paola De Vita -anche lei non nuova dei nostri viaggi culinari- è sempre attenta e disponibile.
Abbiamo bisogno sempre più di giovani, talentuosi, ma, soprattutto, volenterosi di investire sulle proprie caratteristiche. Questi giovani possono essere, per gli altri, un nuovo esempio da seguire, nella cucina, nel lavoro e nella vita in generale.
Caratteristiche simili le abbiamo trovate proprio in Alessandro e Francesca. A loro facciamo i nostri migliori auguri per questo cammino intrapreso e che le “evoluzioni” (accompagnate certamente dalle scontate difficoltà) non gli facciano mai perdere la strada che hanno deciso di percorrere, con lo stesso garbo e con la stessa umiltà con i quali hanno iniziato l’esperienza dei (soli) 32 posti.
Vogliamo raccontarvi di un luogo, di un luogo che racchiude la cultura di una delle aree enologiche più affascinanti del mondo, l’Irpinia. Il luogo è in questo caso un’azienda, JOAQUIN, che si trova a Lapio, nel cuore pulsante delle DOCG del Fiano di Avellino e del Taurasi. La giornata è perfetta, siamo ai primi di Novembre, ma l’aria fresca e il caldo dei raggi del sole ricordano un primo pomeriggio primaverile che porta con se ancora i rimasugli dell’inverno. Prima di recarci in azienda decidiamo di andare a far visita alle viti di Aglianico di Paternopoli, viti prefillossera ultracentenarie che rappresentano i cru del Taurasi e dalle quali Joaquin produce il vino Taurasi Riserva della societa.
Il paesaggio è fiabesco, le colline circostanti sono tappezzate di vigneti, le varie tonalità di verde che sfumano verso l’orizzonte ricordano un paesaggio Tolkieniano. Finalmente arriviamo nella sede di Lapio, dove ad attenderci c’è il titolare Raffaele Pagano, ci presentiamo, e Raffele ci invita calorosamente ad accomodarci per poter iniziare il nostro viaggio verso il gusto. La conversazione che ci accompagna alla degustazione è stimolante e ricca di nozioni sul territorio, sulle usanze del luogo e soprattutto sull’importanza della zona vinicola di Lapio, che Raffaele, data la struttura dei piccoli vigneti dislogati per i diversi comuni della DOCG, paragona ad una piccola Borgogna. “Per comprendere le dinamiche enologiche di queste terre è necessario conoscere la struttura sociale e i loro attori” dice Raffaele.
Difatti le grandi capacità che i vini della zona possiedono sono senz’altro legate al terreno di origine vulcanica ed al clima favorevole, ma sono anche frutto dell’eredità culturale che i padri contadini sono riusciti a trasmettere nei secoli ai figli divenuti produttori di grandi vini. Per la degustazione Raffele ci propone il Vino della stella 2019 Fiano di Avellino e il fratello minore 2020 prelevato direttamente da vasca, provenienti entrambi dai medesimi filari dei cru di Lapio.
Vino della stella 2019 Fiano di Avellino. Vol 14% Colore giallo paglierino carico con riflessi dorati. Al naso biancospino, burro, agrumi note balsamiche di erbe spontanee. Dotato di una verticalità accentuata ben bilanciata dalla morbidezza dei polialcoli. Il sorso è bilanciato e rotondo con una buona sapidità e di lunga persistenza.
Vino della stella 2020 Fiano di Avellino Vol 13.8% Colore giallo paglierino brillante Al naso stupisce, si percepiscono note idrocarburiche, di basalto e di legno di cedro. Al gusto è fresco e ritroviamo la parte aromatica e minerale, l’assaggio è intenso con un finale lungo e persistente. Due fratelli dalle caratteristiche molto differenti, Raffele ci spiega che la politica aziendale di Joaquin tende a ridurre al minimo l’interventistica sui vigneti in modo da poter riscontrare le differenze delle diverse annate anche nel calice. L’azienda per ridurre al minimo i trattamenti fitosanitari utilizza un sistema di Tele rivelamento per ognuna delle vigne che possiede, in modo da controllarne lo stato di salute, come l’umidità che viene calcolata tenendo conto sia delle ore di esposizione ai raggi del sole, sia della percentuale delle piagge e dell’intesità delle stesse. Finita la degustazione Raffaele ci invita a seguirlo in cantina, per proseguire il nostro tour del gusto al bordo del suo Pick up aziendale poichè la cantina si trova a Montefalcione, distante pochi chilometri.
Giunti in cantina veniamo accolti con un sorriso da Francesca Auricchio che ci indica il cammino verso la bottaia poco distante dall’ingresso. L’entrata in bottaia è sempre emozionante, i profumi dei legni inebriano l’aria circostante rendendo l’atmosfera più calda e suggestiva. Francesca inizia con le nozioni teoriche sui procedimenti produttivi aziendali e ci spiega che la macerazione dei vini rossi avviene in botti vecchie di castagno ed avviene a contatto con l’ossigeno, per restare in linea con lo stile ossidativo, uno stile unico che è il marchio di fabbrica dell’azienda Joaquin. Inoltre il castagno viene preferito al rovere anche per l’evoluzione di alcune etichette di bianco che maturano dagli 8 ai 12 mesi, proviene da Agerola, comune del napoletano, rinomato per la qualità dei suoi legni. Appena finito il tour in cantina Francesca ci porta verso il grande tavolo posto al centro della sala, dove abbiamo la possibilità di degustare il Taurasi riserva della società 2015.
Si presenta di un colore rosso granato che lascia filtrare la luce. Al naso ha una complessità impressionante, la freschezza si percepisce già all’olfatto con un chiaro odore di bergamotto, troviamo anche prugne secche e confettura di fichi. I terziari si manifestano con note di cuoio. Al palato è molto intenso, ingresso fresco bilanciato dalla morbidezza dei tannini. Il finale è setoso, con la giusta dose di acidità che non rende la beva monotona e che fa venir voglia subito di un altro sorso. Durante la degustazione al tavolo abbiamo parlato anche della nostra passione come cacciatori di cibo, e ci siamo trovati a parlare con Raffaele e Francesca delle nostre esperienze ai medesimi ristoranti dove la buona cucina ed il buon vino non mancano mai.
Antonio Magliacane e Geda Dell’Anno sono i patron di Saporitaly. Un progetto nato circa sei anni fa, dopo l’esperienza europea di chef Magliacane.
Il locale esprime tutta la sua modernità ma allo stesso tempo ti fa sentire avvolto nel calore della tradizione irpina: le carni a vista e le bottiglie di vino che, come opere d’arte, stagliano sui muri dai colori neutri.
Pecora alla scapece
Da Saporitaly c’è tanta irpinia: il capretto, la sopressata, il caciocavallo, il cinghiale, l’agnello, le zuppe e le minestre.
fagioli con tartufo
Magliacane attraverso queste eccellenze territoriali riporta a sapori di un tempo e, grazie alle sue esperienze extra italiane, ne dà un tono di freschezza e di qualità. L’azienda agricola di famiglia, capeggiata dal “boss” Vincenzo il quale con lodevole passione dona ai palati, anche quelli più esigenti, il gusto dei propri salumi rigorosamente a chilometro zero. La maestria nella cura delle carni è certamente il “marchio di fabbrica” della famiglia Magliacane che Antonio ha saputo magistralmente trasferire nei suoi piatti. Probabilmente anche il richiamo nella denominazione all’Italia è la rappresentazione di quello che sarà poi il pranzo: l’eccellenza italiana del cibo. Allora, Magliacane può rientrare a pieno tra gli ambasciatori di questa tradizione, dell’eccellenza irpina. E non ci riferiamo solo alle tipologie di ingredienti utilizzati, ma anche al modo di lavorarli e, quindi, cucinarli.
tagliolino al tartufo
Non per utilizzare lo stile da recensione, ma ci preme segnalare alcuni dei piatti proposti: la “pecora alla scapece” e il “cinghiale con le papaine”, senza dimenticare la pasta fresca artigianale espresse nel piatto “tagliolini al tartufo bianco”.
La carta dei vini non è amplissima, ma grazie a Geda abbiamo potuto constatare l’accuratezza nella scelta dei pochi vini in cantina i quali rappresentano comunque delle eccellenze (anche di nicchia) dei territori.
con Chef Antonio Magliacane e Geda Dell’Anno
Conoscendo la fama anche sui prodotti ittici, saremo costretti (una costrizione di piacere la nostra) a tornare.
Guardanapoli entra a pieno nel nostro lunghissimo elenco di “luoghi” cui fa visita. Oramai avete imparato a conoscerci, siamo lontani dalle solite “recensioni” (almeno questo è il nostro intento). Ci piace, piuttosto, sottolineare e raccontare ciò che più ci ha colpito delle storie che vi sono dietro i locali.
Abbiamo avuto modo di conoscere la famiglia Pascarella per il tramite del suo esponente più giovane. Carmine ci ha da subito colpiti sin da quando lo incontrammo la primissima volta a Durazzano durante l’evento “Gustarte” (http://www.idueghiottoni.com/2022/09/08/durazzano-gustarte-eventi-che-fanno-bene-ai-territori/). Lo abbiamo definito “internazionale”: ve ne dovevamo dare conto e lo facciamo raccontando la sua “Guardanapoli”.
Ristorante della tradizione legata alle cerimonie che però punta molto alla sperimentazione (quest’anno festeggia i 50 anni di attività).
La location si affaccia (anche se un po’ in lontananza) sul golfo di Napoli: suggestiva la vista nelle giornate serene. Dal terrazzo superiore (oggetto di una prossima riqualificazione di cui non possiamo svelarvi nulla) si gode della vista sul parco interno, in cui molte cerimonie vengono allestite nel segno della natura e della tranquillità.
La spicciolata e la pizza richiamano indiscutibilmente (e volontariamente) i sapori della tradizione culinaria napoletana. Il gourmet lascia spazio, da Guardanapoli, all’attenzione al gusto e alla qualità dei prodotti. L’insalata di polipo merita una menzione speciale, al pari della frittura e del fusillo avellinese con seppie, zucchine e gamberetti.
Carmine è un imprenditore moderno, grazie anche alla disponibilità dei genitori che gli hanno lasciato autonomia decisionale. Il suo sprint giovanile, la sua volontà di ampliare le proprie opportunità di crescita lo rendono davvero “internazionale”. Il suo impegno maggiore, assieme a quello di tutti i suoi familiari, è dedicato al marchio “Le Prelibatezze di Nonna Rosa”. La storia che rappresenta Donna Rosa è una storia di valori, di sacrifici, di legami: è la storia di una famiglia che, attorno alle colonne portanti (i più anziani), ispira il proprio futuro e la propria crescita.
A Carmine va tutto il nostro plauso per l’impegno nel suo lavoro e anche nello studio: approfondisce quotidianamente il proprio agire professionale affinché l’improvvisazione possa lasciare spazio a competenze che per il mondo del food business sono sempre più importanti.
Come pure ammiriamo i sacrifici di tutti i componenti della famiglia che, con esemplare sensibilità, ogni giorno lavora e investe per i propri dipendenti i quali diventano anch’essi protagonisti del mondo “Guardanapoli”.
A pochi chilometri da Avellino, nella terra del Fiano, nasce Calafià, antica espressione contadina legata alla lavorazione post vendemmia.
Arrivati a Lapio, al centro della via principale, due fratelli, Pietro ed Emanuela, hanno realizzato il loro sogno di aprire un winebar gourmet che tenesse unite le due grandi passioni della famiglia: il vino e la cucina.
La struttura scelta si apre come uno scrigno. Si entra in un ambiente moderno con colori vivi e foto a grandezza d’uomo, certamente un invito a farsi fotografare o fare da sfondo ai propri selfie.
Fatti pochi passi si entra nella storia: un’antica cantina, con un arredamento moderno, tutta in pietra e archi a botte, la quale, sontuosa, “osserva” le storie che giorno dopo giorno si vivono e si sono vissute ai suoi piedi. Proprio l’ambientazione è un invito a “restare”, a soffermarsi, a staccare dalla routine. Ma, soprattutto, a sorseggiare il piacevolissimo fiano della cantina Filadoro, azienda di famiglia.
Ci accoglie il giovane Pietro, patron e tutto fare. Il suo lavorare nelle vigne di famiglia ed il compiacersene sono la vera speranza per chi crede ancora che dalla “terra” possa esserci un futuro per il territorio irpino caratterizzato dalle specialità enogastronomiche di eccellenza. Ad accompagnarlo nella gestione della sala, l’altrettanto giovane Emanuela, all’apparenza più austera e concentrata, attenta a far sentire a proprio agio gli avventori.
Il tema dei giovani che investono in se stessi e nei propri talenti viene confermato dalla scelta di affidare la cucina all’anch’egli giovanissimo Vincenzo Cascone. La sua “giovinezza” è espressa a pieno nei piatti: colori, stile, irruenza (nel senso più positivo che si possa dare), i quali lo “iniziano” alla lunga esperienza culinaria che dovrà affrontare (ma la sua volontà e la sua visione ci fanno ben sperare).
Siamo ad Avellino e precisamente al dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II insieme a Marco Maietta dell’Associazione “Birrando… Si Impara”. L’evento è dedicato “Alla scoperta delle birre di Natale”, dette anche “Kerstbier” ovvero quelle birre dalle caratteristiche belghe che non appartengono ad uno stile birrario ben preciso.
Ma, allora, quali sono le birre di Natale?
Sicuramente si fa riferimento a quelle caratterizzate da aromi “caldi” che rappresentano, per l’appunto, il Natale: la cannella, la buccia d’arancia, il coriandolo, i chiodi di garofano, l’anice stellato, il ginepro.
Diverse nazioni esprimono la propria birra di Natale. L’Italia lo fa in modo clamoroso, probabilmente per il rapporto di filiazione che è esistito tra il movimento italiano e quello belga. Parliamo di Strong Ale molto aromatizzate.
“Birrando… Si Impara” ci omaggia di due degustazioni a sorpresa.
La prima birra spillata si presenta con una schiuma color crema, dalla grana sottile e dal colore mogano con riflessi rame. Al naso emana sentori dolci: miele e caramello che si confermano al gusto, con l’aggiunta di agrumi canditi. La bevuta è equilibrata e corposa. A fine degustazione scopriamo che si tratta della “Leffe noel”, birra consigliata in abbinamento al classico panettone di Natale.
La seconda birra in degustazione ha una spillatura a caduta, stile tedesco. È una classica “da meditazione”, dal colore ebano e senza molta schiuma, proprio per l’assenza di gas. Un’esplosione di profumi la caratterizza: caffè tostato, liquirizia, cannella, chiodi di garofano, anice stellato, coriandolo, buccia d’arancia, noce moscata. Tutti aromi che ritroviamo anche al gusto. Il sorso è persistente ed equilibrato. “A babbo morto”, questo il nome della birra dai cinque malti, è stata prodotta per uso proprio (ahinoi!) dagli amici di “Birrando… Si Impara”. Essa si abbina perfettamente ai classici dolci natalizi delle nostre zone. Consigliatissima da accompagnamento al “mustacciuolo”.
L’evento dell’Associazione “Birrando… Si Impara” in collaborazione con il Dipartimento di Agraria di Avellino sembra essere solo il primo di tanti altri al quale con piacere parteciperemo e magari potremo riassaggiare insieme “A babbo morto” e confrontarne le caratteristiche organolettiche a distanza di un anno.
Nella cornice di uno dei borghi più belli d’Italia, Montesarchio, Giuseppe Bove si propone con un classico della tradizione gastronomica italiana: la pizza. Lo fa da “figlio d’arte” (è alla terza generazione di cuochi), e da ex cuoco.
La sua formazione da piazzaiolo si sviluppa essenzialmente con la ricerca e la sperimentazione. Quando, infatti, gli abbiamo chiesto “come nascono le tue pizze”, Giuseppe ci ha risposto, con la schiettezza che lo contraddistingue, “chell’ ca me passa p’ ‘a capa, chell’ faccio” (quello che mi sovviene alla mente è ciò che realizzo).
Bove non si adegua alla moda, anzi la sfida. Sin dal 2012, anno della sua prima pizza, segue la stagionalità, ma lo fa con intelligenza e scegliendo accuratamente i propri fornitori, privilegiando il biologico, il km0 e il sostegno alla “artigianalità” locale. Citiamo, ad esempio, la riuscita scelta (almeno per quanto ci riguarda) di variare mensilmente la carta delle birre artigianali.
La sala, rinnovata e ampliata da pochi anni, si rifà ad un arredamento moderno senza troppe pretese. Il locale dove il maestro Bove sperimenta è racchiuso all’interno di una “vetrina” dando l’idea che la sua “creazione gastronomica” faccia parte di un film a cui i commensali possono assistere. Il risultato delle creazioni è unico: esteticamente sono complesse ma eleganti.
Il gusto … lo lasciamo a quelle che saranno le vostre sensazioni ed emozioni. A noi, ci hanno emozionato. Gli abbinamenti ed i contrasti dei vari gusti sono la rappresentazione della scomposizione di piatti (ed in questo rivediamo il Bove cuoco) riproposti come topping sulle pizze.
Non possiamo non citare il riconoscimento ottenuto dal Segreto di Pulcinella pizza che è entrata a far parte delle migliori cento pizzerie d’Italia de “L’Espresso”.